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NISE, Federico Cavann@ in Genova "work-shop"
2014 D-DAY, Lo sbarco sulla spiaggia di OMAHA |
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Combattente americano di grado non identificato;
indossa una versione particolare di giacca da fanteria con cerniera e
laccetto per la chiusura del colletto (Archivio NARA video). Questa foto è stata scattata nel 1943, durante la
guerra in Nord Africa. La foto mostra un ideale campionario di tenute da
carrista. Il terzo carrista, da destra, indossa giubbotto in cotone e in
color kaki. Questo giubbotto era molto apprezzato dagli ufficiali di fanteria
come il nostro capitano WALKER (Archivio NARA). Fanteria americana si ripara dietro uno SHERMAN. I
primi due soldati indossano la versione mimetica della giacca a bottoni
M1941, capo di abbigliamento eliminato dal guardaroba del G.I. dato che
spesso indossandola venivano scambiati per soldati delle Waffen SS. Quasi
tutti i G.I. presenti al D-DAY indossavano le ghette con scarponcino
(Archivio NARA video). Autunno del 1944. Il Generale Lucian King TRUSCOT, a
sinistra, indossa una versione personale di giacca da campo. A destra il
Generale John W O’DANIEL indossa una Tanker Jacket regolamentare con
l’aggiunta di guanti in pelle in dotazione ai carristi (Archivio NARA). Foto storica scattata pochi giorni dopo lo sbarco. A
sinistra, Robert CAPA indossa la giacca in uso ai corpi aviotrasportati. Al
centro il loro autista indossa la Tanker Jacket. A destra lo scrittore Ernest
Hemingway indossa una versione della giacca M1941 con tasche molto simili a
quelle della TJ. I pantaloni, in cotone, sono color oliva e non marroni
(Archivio NARA). Al funerale del generale di brigata Theodor ROOSVELT
jr, deceduto per un infarto il 12 luglio del 44, parteciparono tutti i
massimi gradi presenti in Normandia. Da notare che quasi tutti, ad eccezione
del Generale PATTON (indossava una “Ike
Jacket”), indossano la TJ con fondina ascellare e non al cinturone (Archivio
NARA). Il fotografo ha colto la drammaticità degli scontri che
furono altrettanto intensi nel Bocage, subito dopo la conquista delle spiagge
della NORMANDIA. Sia il ferito sia il personale infermieristico indossano la
giacca M1941 con bottoni e senza polsini. I pantaloni sono quelli di fanteria
in cotone colore marrone (Archivio NARA). Il capitano WALKER durante un raduno d reduci del D-DAY
nel 2004 (www.29infantrydivision.org) (Foto di Laurent LEFEBVRE, copyright 2000-2014). Immagini, nomi di prodotti, marchi, sono: tutelati dai
rispettivi copyright se registrati o non scaduti, fanno riferimento e solo ai
loro legittimi proprietari. |
Il D-DAY lo sbarco sulla spiaggia di OMAHA,
il capitano Robert WALKER Egli confidava sul fatto, quanto mai certo,
che la spiaggia di OMAHA era difesa da un solo battaglione (ottocento uomini circa) della 716a
Divisione di fanteria tedesca; una divisione costituita da soldati
provenienti da diversi reparti, rincalzi in età avanzata, per la maggior
parte poco addestrati al combattimento, sfiancati reduci di diverse campagne
e in parte ex soldati degli eserciti delle nazioni dell’est costretti a
combattere sotto la svastica. Era stato informato che i bombardieri
americani avrebbero bombardato l’intera costa poco prima dello sbarco,
distruggendo quindi qualsiasi fortificazione nemica. Inoltre, proprio con
l’avvicinarsi alla costa dei mezzi da sbarco, vi sarebbe stato un secondo
bombardamento navale per eliminare le ultime sacche difensive. Infine, 40.000 soldati alleati e 3.500 mezzi
(dai carri armati fino alle jeep)
sarebbero sbarcati a ondate, perché la resistenza tedesca sarebbe iniziata
con l’avanzare all’interno della costa e non sulla costa stessa. Lo choc, che il capitano WALKER dovette
affrontare, non fu solo il momento dello sbarco sulla spiaggia di OMAHA ma
l’amara sorpresa di scoprire che nessuna delle informazioni ricevute fosse
veritiera. Su quella striscia sabbiosa vi era un
inferno di fuoco che arrivava dalle fortificazioni presenti alla base della
spiaggia stessa, sul pendio e in cima alla costa. La spiaggia era uno spazio scoperto dove i
Tedeschi potevano colpire chiunque e quindi non fu possibile sbarcare tutte
le forze disponibili; infine vi erano pochi mezzi corazzati proprio li a fare
fuoco contro i bunker nemici, in quanto che erano affondati durante la
discesa dai mezzi da sbarco oppure erano stati colpiti già sulla battigia. Avvicinandosi a bordo di un LCT, il nostro
coraggioso capitano, quanto fiducioso, si rese conto che nessuna delle sue
informazioni era giusta. Tutto era intatto davanti a lui: le case di
VIERVILLE, la vegetazione lungo il pendio, nemmeno il più piccolo segno che
la costa era stata bombardata. In un attimo comprese che i bombardieri non
avevano neutralizzato nemmeno una semplice buca armata con una MG42. Inevitabile
fu l’imprecazione “Dov’è quella
maledetta aviazione?”. Per WALKER iniziava il D-DAY. Era stato imbarcato sull’LCI-91 con
l’obiettivo di conquistare il Settore WHITE DOG. Alle 7:30 circa il mezzo da sbarco urtò
contro una mina TALLER, dopo essersi riuscito a divincolarsi da una serie di
pali conficcati sul fondale e alla cui estremità vi era legata una mina
anticarro di quel tipo. La passerella di sinistra fu letteralmente fatta
volare via dall’esplosione e in parte il mezzo da sbarco prese fuoco. Uno dei
soldati, che a bordo dell’LCI indossava il lanciafiamme, venne colpito da una
pallottola nemica e prese fuoco come una torcia; alcuni dei soldati attorno a
lui rimasero ustionati gravemente e WALKER rimase pietrificato davanti a quel
terribile scenario. In seguito l’LCI continuò a bruciare per altre diciotto
ore, e le munizioni a bordo crearono un macabro spettacolo pirotecnico. Visto il volgersi della situazione, il
capitano non si fece prendere dagli eventi e ordinò a tutti i suoi uomini di
abbandonare il mezzo anfibio e di gettarsi in mare. Lo stesso poi fece WALKER
una volta sicuro che nessuno fosse rimasto a bordo. L’acqua era profonda
oltre due metri e visto il carico (di
armi e munizioni) che il capitano indossava, iniziò ad andare a fondo con
il rischio di annegare. Iniziò convulsamente a liberarsi del fucile, poi
dell’elmetto e del tascapane finché non riuscì a riemergere anche e
soprattutto grazie all’aiuto di due cinture MAE WEST che fortunatamente si
gonfiarono senza problemi di sorta. Così egli commentò quel drammatico momento “Ero dunque a OMAHA BEACH. Invece di
sbarcare da fiero guerriero di fanteria, ben addestrato a combattere, ero
approdato da povero superstite di un naufragio, esausto e praticamente senza
armi”. I mezzi da sbarco furono bersagliati da ogni
genere di arma nemica. Investiti da questo improvviso piovere di proiettili,
i timonieri dei mezzi da sbarco si fermarono molto prima di toccare con il
loro fondo la battigia, così i soldati americani si ritrovarono dai 100 ai
300 metri di distanza rispetto alla spiaggia. WALKER, come molti altri,
sbarcò con tempestività ma ebbe, come prima descritto, anche lui l’amara
sorpresa di ritrovarsi con l’acqua non alle ginocchia ma quasi sopra la
testa. Tutti i soldati americani erano carichi
oltre misura di armi e proiettili, un peso aggiuntivo che poteva
tranquillamente superare i trenta chili. Se si aggiunge l’equipaggiamento
personale, l’elmetto, l’uniforme compresa di scarponi, un fante mediamente portava
addosso oltre 50 kg di materiale. La maggior parte di loro cadendo in acqua
rischiò di annegare, molti riuscirono a far gonfiare le cinture galleggianti,
chiamate MAE WEST, ma alcuni morirono annegati o colpiti dai proiettili
nemici mentre tentavano di non affogare liberandosi dell’equipaggiamento. Lo stesso WALKER si liberò di quanto poteva.
Faticosamente raggiunse le difese tedesche che erano poste in acqua: Cavalli
di Frisia e pali conficcati in diagonale nel fondale allo scopo di squarciare
le chiglie delle imbarcazioni. E poi mine di ogni genere. Arrivò finalmente sulla spiaggia da cui poi
raggiunse il muro anticarro che divideva la spiaggia da uno spazio minato che
terminava con l’inizio del pendio della costa. Ai suoi occhi le scene che si mostravano
erano terribili, dettagliatamente illustrate nel film “SALVATE IL SOLDATO
RYAN”; molti uomini arrivarono sulla spiaggia privi del loro equipaggiamento,
feriti o mezzi annegati, disorientati e spaventati oltre ogni misura. La maggior parte di loro non aveva
partecipato a nessuna campagna militare, fosse in Nord AFRICA come in ITALIA,
e quindi privi di quella capacità di sopportare lo choc dello scontro al
fuoco diretto. C'era, sicuramente un problema di morale
molto basso e di uno stato di panico fuori misura. Molti soldati ebbero crisi
nervose, senso di disorientamento, in molti casi lo stato isterico li portò
al vomito e alla perdita di controllo degli sfinteri. Un soldato raccontò
come gli parve assurdo la sua preoccupazione di trovare, mentre sulla
spiaggia infuriava il fuoco tedesco, un modo per urinare dignitosamente, un
assurdo vista la circostanza e il fatto che tutti erano caduti in acqua
quindi completamente zuppi dato che erano ancora costretti a ripararsi tra le
onde che arrivavano sulla battigia. I sopravvissuti di quella traversata per
arrivare alla spiaggia, molti dei quali stavano vivendo il loro primo fuoco
nemico, avevano visto pesanti perdite tra i loro compagni o in unità vicine.
Nessuna azione poteva essere combattuta in circostanze più critiche, tutto
sembrava far solo aumentare gli effetti morali negativi. Dietro di loro la marea stava facendo
annegare gli uomini feriti, che erano stati abbattuti sulla spiaggia, e stava
trasportando molti corpi in prossimità del muraglione anticarro. Storditi e
scossi da ciò che avevano vissuto, i soldati raggiunsero il muraglione che
divideva la spiaggia dal banco di ghiaia prima dell’inizio della scarpata. Da
quel muro si aveva un precario riparo rispetto alle postazioni nemiche, poche
le armi a disposizione, nullo il fuoco di copertura navale che era cessato
per non colpire i soldati sulla spiaggia. Lo sforzo fisico che fecero quei soldati, in
un’età compresa tra i diciotto e i trent’anni, fu enorme nonostante fosse
relativo lo spazio da percorrere di circa duecento metri. L’arco di tempo
necessario, per alcuni, durò una decina di minuti mentre per altri si
prolungò anche per più di un’ora. Comprensibile, allora, la testimonianza del
sergente SLAUGHTER in merito a questo dettaglio dopo lo sbarco “La
prima cosa che feci fu di togliermi il giubbotto in modo da poter pulire
[dalla sabbia] il fucile… mi accesi la mia prima sigaretta. Poi dovetti
stendermi e riposarmi perché le ginocchia cominciavano a farmi male“. Torniamo al capitano WALKER accucciato al
muro frangiflutti. Egli capì, dopo pochi minuti, che era necessario
attraversare la zona minata della spiaggia, risalire la scarpata e da li
ridiscendere attraverso i canaloni che portavano alla spiaggia stessa
cercando di distruggere le postazioni tedesche. Così si fece coraggio e
iniziò ad attraversare la parte minata per poi risalire lungo la scarpata. Alle 8:30
i varchi non erano stati ancora aperti, pur se qualche ufficiale (come il generale COTA) con pochi
uomini era riuscito a salire lungo il pendio, la situazione era nel caos più
totale. Oltre 5.000 soldati americani affollavano la spiaggia difesi dai
pochi SHERMAN che erano riusciti a sbarcare senza affondare per causa del
fondale troppo alto. La situazione era talmente confusa che
persino i Tedeschi erano convinti di essere riusciti, con meno di mille
soldati, a fermare lo sbarco. Ecco cosa comunicò il comandante della
Postazione 76 al comando della 352a Divisione tedesca “Sul litorale fra ST. LAURENT e VIERVILLE, con la bassa marea, il nemico
cerca riparo dietro gli ostacoli costieri. Un gran numero di mezzi, fra cui
dieci carri armati, è avvolto dalle fiamme. Le squadre di genieri [americani]
hanno abbandonato la loro missione. Sono cessati gli sbarchi, le navi si
tengono al largo. Il fuoco dei nostri fortini e dell’artiglieria è andato a
segno infliggendo al nemico gravi perdite. La spiaggia è coperta di morti e
feriti”. Intanto il nostro impavido capitano, dopo
aver recuperato dalla spiaggia un elmetto e un fucile, a un commilitone morto,
iniziava la scalata della costa “Non
c’era nessuno del 116° e mi resi conto di essere completamente solo”. Riuscì ad arrivare in cima alla scarpata,
dove vi era la strada per VIERVILLE, da lì iniziò a dirigersi verso il
canalone che era stato prefissato come obiettivo per lui e i suoi uomini.
Nell’avvicinamento al varco prefissato, mentre risaliva, trovò un soldato
tedesco ferito che gl’implorò dell’acqua. WALKER, non ancora indurito dalla
guerra, si prese cura di lui medicandolo e dandogli dell’acqua. Non tutti i soldati americani ebbero cure
immediate, o il conforto di qualcuno, e in alcuni casi le ferite furono più
gravi del previsto poiché le mine presenti erano in grado di non uccidere ma
ferire in modo drammatico. Lo stesso WALKER poté vedere, sul piano della
scogliera, decine di soldati americani con le gambe dilaniate (se non amputate) perché erano
incappati in un’area minata. Costoro non solo morirono per le mutilazioni
riportate ma per la lunga attesa dei soccorsi che non riuscivano, a loro volta,
a superare il fuoco nemico e le stesse mine. E’ poco noto il fatto che
diversi decessi, nonostante fosse giugno, avvennero per il freddo e lo stress
fisico subito e non meno per la lunga attesa prima di ricevere cure efficaci
e non solo medicazioni sommarie, plasma, morfina e nei casi più gravi con il
Nembutal. Per tutta la mattina di quel sei giugno, il
116° reggimento e del 5° Battaglione RANGER, dovettero combattere a lungo per
poter sconfiggere i Tedeschi trincerati. Solo nel tardo pomeriggio i varchi furono
tutti resi praticabili, espugnati tutti i bunker e le postazioni di difesa
tedesca. Il D-DAY era al termine, per il capitano
Robert WALKER iniziava la sua guerra contro la GERMANIA e da cui ne sarebbe
uscito indenne e pluridecorato. Nelle sue memorie, raccontate dallo
scrittore americano AMBROSE, WALKER omise di descrivere che molti fortini e
bunker furono espugnati senza pietà e con altrettanta rabbia furono
giustiziati sommariamente i Tedeschi che li difendevano. Un altro scrittore
famoso, BEEVOR, riportò delle informazioni certe in merito al 2° battaglione
del 726° reggimento tedesco i cui sopravvissuti, ad un attacco di carri
SHERMAN, furono giustiziati in spregio alla convenzione di GINEVRA. Solo
sessantasei feriti furono risparmiati dalla rabbia vendicatrice dei fanti
americani. Pur se la battaglia durò solo il volgere di
un giorno, resta statisticamente uno degli scontri più duri di tutta la
seconda guerra mondiale. Se la media dei caduti tedeschi sul fronte orientale
fu di circa 1000 uomini al mese, in NORMANDIA il numero salì a 2300. La media mensile dei soldati alleati fu di
circa 2000 uomini per divisione, sempre nell’arco di un mese. In genere
la fanteria indossava la giubba M1941 (Field
Jacket M1941, o denominata Parson’s Jacket), abbottonabile al centro e
con un colletto con risvolti. La giacca M1941 si dimostrò poco pratica per
gli equipaggi dei mezzi corazzati e comunque poco efficace contro il vento e
la pioggia. In seguito fu realizzata una versione più
sportiva della giacca di fanteria, che nel frattempo ebbe diverse versioni;
il risultato della trasformazione fu un giubbotto dal taglio molto semplice e
corto, con cerniera al centro e parte elasticizzata in vita, ai polsi e al
colletto. Il nome del modello ufficialmente era “Jacket Combat Winter” o più
comunemente “Tanker Jacket”. Era in cotone con un rivestimento interno di
lana, la zip permetteva di chiuderla e aprirla più velocemente rispetto al
modello con bottoni, la parte in vita così come i polsini e il colletto erano
realizzati in cotone con un’anima elasticizzata. I colori potevano essere
kaki tendente al color senape oppure nel classico verde noto ai più come
“Olive Drab”. Sin dalla campagna in Italia, nel 1943, la
Tanker Jacket raccolse pareri favorevoli e gran parte degli ufficiali preferivano
indossarla al posto delle classiche giubbe o dei vetusti cappotti. I pantaloni della fanteria erano in cotone (versione estiva, lana o fustagno per
l’invernale), i colori variavano dal marrone scuro al verde oliva
bruciato. Bibliografia -Antony Beevor “D-DAY, la battaglia che
salvò l’Europa”, RIZZOLI - A. Cantamutto, G. Ludi, N. Sgarlato
"D-DAY Lo sbarco in Normandia", Delta Editrice. |
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